La straniera – Unità 2

Destinatari: Adulti                             Livello: B2/C1            Cristina Di Bari

La straniera

La letteratura nella didattica dell’italiano agli stranieri

Unità 2 – La migrazione italiana a metà Novecento

Attività 1: L’avvicinamento al testo

Molti attori e cantanti americani e non solo hanno in realtà origini italiane. Scopri chi sono e da dove vengono! 

 

Giochiamo! Inserisci ogni regione al suo posto nella cartina dell’Italia: https://learningapps.org/1471937

Attività 2: La comprensione del testo

CESARE PAVESE, LA LUNA E I FALÒ, Torino, Einaudi, 1950, pp. 5-8

Leggi il brano e svolgi gli esercizi. 

Questo romanzo, pubblicato nel 1950, è ambientato in un paese della valle del Belbo, ossia Santo Stefano Belbo, nella regione italiana del Piemonte. Il protagonista, Anguilla, tornato emigrante dall’America dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, rivive i ricordi, spesso tristi, della sua vita e capisce quanto sia importante avere un punto di riferimento.

C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire “Ecco cos’ero prima di nascere”. Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.

Se sono cresciuto in questo paese, devo dir grazie alla Virginia, a Padrino, tutta gente che non c’è più, anche se loro mi hanno preso e allevato soltanto perché l’ospedale di Alessandria gli passava la mesata. […]

Adesso sapevo ch’eravamo dei miserabili, perché soltanto i miserabili allevano i bastardi dell’ospedale. Prima, quando correndo a scuola gli altri mi dicevano bastardo, io credevo che fosse un nome come vigliacco o vagabondo e rispondevo per le rime. Ma ero già un ragazzo fatto e il municipio non ci pagava più lo scudo, che io ancora non avevo ben capito che non essere figlio di Padrino e della Virginia voleva dire non essere nato in Gaminella, non essere sbucato da sotto i noccioli o dall’orecchio della nostra capra come le ragazze.

L’altr’anno, quando tornai la prima volta in paese, venni quasi di nascosto a rivedere i noccioli. La collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un pendio così insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima – e in cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri – era come scorticata dall’inverno, mostrava il nudo della terra e dei tronchi. La vedevo bene, nella luce asciutta, digradare gigantesca verso Canelli dove la nostra valle finisce. Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul ciglione la parete del casotto di grosse pietre annerite, il fico storto, la finestretta vuota, e pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati; la macchia dei noccioli sparita, ridotta una stoppia di meliga. Dalla stalla muggì un bue, e nel freddo della sera sentii l’odore del letame. Chi adesso stava nel casotto non era dunque più così pezzente come noi. M’ero sempre aspettato qualcosa di simile, o magari anche che il casotto fosse crollato; tante volte m’ero immaginato sulla spalletta del ponte a chiedermi com’era stato possibile passare tanti anni in quel buco, su quei pochi sentieri, pascolando la capra e cercando le mele rotolate in fondo alla riva, convinto che il mondo finisse alla svolta dove la strada strapiombava sul Belbo. Ma non mi ero aspettato di non trovare più i noccioli. Voleva dire ch’era tutto finito. La novità mi scoraggiò a tal punto che non chiamai, non entrai sull’aia. Capii lì per lì che cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci già mezzo sepolto insieme ai vecchi, tanto che un cambiamento di colture non importi. Certamente, di macchie di noccioli ne restavano sulle colline, potevo ancora ritrovarmici; io stesso, se di quella riva fossi stato padrone, l’avrei magari roncata e messa a grano, ma intanto adesso mi faceva l’effetto di quelle stanze di città dove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti. […]

Così questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto. Uno gira per mare e per terra, come i giovanotti dei miei tempi andavano sulle feste dei paesi intorno, e ballavano, bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandiera e i pugni rotti. Si fa l’uva e la si vende a Canelli; si raccolgono i tartufi e si portano in Alba. C’è Nuto, il mio amico del Salto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo. Che cosa vuol dire? Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d’occhio e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono col tempo e l’esperienza. Possibile che a quarant’anni, e con tutto il mondo che ho visto, non sappia ancora che cos’è il mio paese?

Comprensione globale

Comprensione analitica

Nel testo sono presenti parole o frasi che non fanno parte dell’italiano standard perché hanno una costruzione diversa o perché sono termini tipici del dialetto, in altri casi ci sono termini del linguaggio settoriale agricolo.

Rileggi il testo e prova ad individuarli da solo/a.

Successivamente confronta le forme individuate con quelle della tabella sottostante e sostituiscile con termini ed espressioni dell’italiano standard.

Prova poi ad individuare il tipo di fenomeno tra questi elencati:

  • che polivalente: es. “vieni che ti aiuto”;
  • dislocazione a sinistra: es. “le mele le prendo”;
  • posposizione del verbo: es. “il pane vuoi?”;
  • pronomi lui/lei al posto di loro;
  • termini dialettali;
  • termini settoriali.

Che cosa significano questi termini metaforici?

 

Attività 3: La produzione di un testo

Racconta in un audio la tua storia familiare, andando il più possibile indietro nel tempo.

Nella tua famiglia ci sono esperienze di migrazione interna (dentro i confini della nazione) o esterna (internazionale)?

C’è invece un luogo che consideri “casa” e che ti ricorda della tua infanzia?